Studi » Domenico Cara: Stato civile (ed elegiaco) di un «adagio quotidiano»
1. La vita e il suo geranio
In disparte dalla prassi, ma senza fiacco poser à l'incomprise, Marino Piazzolla cita la sua preghiera all'Altissimo, traccia la propria identità nell'imperfetto presente, tra i frammenti che "lasciano deserto" il sogno esistenziale e il geranio che il sogno offre al proprio itinerario umano. Sono gli Anni Cinquanta e "Adagio quotidiano" (Rebellato editore, 1958) esprime quella ricerca dell'ombra dentro cui s'inalveano anche la sua fiducia nell'esistere, la morale di una pace crepuscolaristica, tenue, discreta, senza danze terribili o violenze estese. (Siamo ancora distanti, per esempio, da "Sugli occhi e per sempre" [Fermenti editrice, 1979] i cui vasti poemi e la complessità morfologica di essi sottolineano i sensi e le esplicazioni di una vita complessa, l'interazione della libertà espressiva che ha ormai raggiunto un'articolazione che - ovviamente - va oltre l'adagio quasi madrigalesco e la scoperta del cuore di essere sensitivo, nei giorni (sempre) incompiuti, o cresciuto nel clima di uno stato civile dell'essere elegiaco, con più lacrime, la collisione con il sangue ed i vecchi amori, i pudori del peccato, la fibra che si riporta all'umiliazione religiosa ed anche all'estasi nuova dello spirito più intatto). L'ambiente di codesto libro è intriso di impressionismo amoroso, di una sincerità che non ha ancora attivi autunni, nè soluzioni di come sensibilmente intendersi col mondo, ma c'è qualcosa di solare e di mediterraneo che si adatta (o si spinge?) al dolore, alla semplicità di esso nello stato di ferimento della speranza sospesa, e in quello di un minimo romanticismo in cui il sentimento duplica l'adulterio con l'ombra e dentro la quale il suo corpo s'addormenta. Una poesia tuffa atmosfere, scritta per il sentimento, senza efficaci realismì, nè immense pene sperimentali; i travagli sono alquanto morbosi dal punto di vista del mite modo di raccontare uno stato d'angoscia propria del poeta, in quel tempo incorreggibile nel ricominciare sempre su partenze sfumate, dimesse, senza alcun piccolo scandalo di scrittura e teso tra i silenzi corporali e chiusi e un suasivo erotismo della morte, che continuava persino il lenimento dalle passioni umane e da ogni piacevole e pericolosa entità del peccato: "Dio mio, di sera in sera, I Non resta che l'aria e la terra battuta: I La mano che s'addentra nei capelli. I Non ho che la penna che scrive I E da tempo mi svuota il cuore I come una muta compagna I che vuole sapere tutto di me. I Se fossi ricco I lo mi sarei di già dimenticato: I E, forse, nel mio cuore, I Avrei scoperto in fondo un altro cuore". (Dio mio, di sera in sera). Una euritmia che flagella i sogni del mondo e che si affida al polline della spontaneità emotiva, che ricomincia (senza salti drammatici o annodi anomali all'immanenza) un avvicendarsi del discorso privato senza aperti frastagli e senza assurdi squarci, più pacificato che effusivo, più compilatore del proprio ritratto che incline alla civile e secca esperienza del contrasto oscuro o sensazionale, più impreparato ad affrontare lo scoglio della vita che incauto nei travasi di espressione autoconflittuale, e tanto meno - o in qualche modo - difforme nella minima petulanza poeticistica in cui indubbiamente mostra esconazioni alla sua stessa innqcenza di automatico scriba.
2. Un paradiso ed altra morte dell'uomo
L'ispirazione della vita così gli diventa estasi, sia pur ammettendo la realtà nel clima del dispiegamento emozionale, e quasi schema del dire, informazione collegata alla ricostruzione del senso della sua anima. In particolare è la morte che segna l'avvio e la ripresa del viaggio in un paradiso di conti ngenze espressionistiche; essa muove uno stato di psicofisiologia, un'immagine morbida e ardente; fornisce adescamenti ritmici, sintagmi tersi, patimenti (non patetici), percezioni amare, una lingua elettiva sconvolta ed efficace, analogie e simboli, sequenze tristi, piaghe riconoscibili, altra dolcezza soggettivizzata sulla estrema importanza della fine.
"E ora occorre tacere, / Perché tacere è andare / A una nuova innocenza: / Vivere per l'ombra / Come per la notte. / Di tutti gli anni perduti / Non ci resta / Che un soffio a battere / Nel sangue / E tutto il tempo vuoto / Di là da venire. / D'ogni amore, / E traccia di patimento / il nostro volto / E la calma degli occhi. / La nostra voce ha vissuto / Ed è per questo antica: / Ci dice che siamo vivi, / Piantati una volta a soffrire". (Piantati una volta a softrire). Qui il risaputo non è un antidoto, ma un segno biologico della conoscenza, riflesso nello specchio del quotidiano come un adagio personale e schema fisso della mente umana, che incrocia una valenza paolina per la storia irta.
Non potrebbe servirsi di astrazioni esterne, e tanto meno di interne coesistenze, di riferimenti atroci per retorizzare il riconoscimento e la profonda pena d'uomo. Marino Piazzolla promuove liberamente l'istanza, riassocia la tristezza logica, fornisce i meccanismi della spontaneità interdipendente al suo essere vissuto e alla capacità di percepire il Male (la morte) che diventa il Bene nel senso che in esso si fondano le ipotesi (e le possibilità) del paradiso cristiano in cui "l'ombra di Dio" è la luce che provoca ed accarezza la Grazia. Sciamano da qui le insorgenze delle parole-chiavi: "cuore", "ombra", "cielo", "Dio", "luce", "tempo", "silenzio","madre", "padre", "notte", "sera", "pena", "terra", "pace", "pietà", "vita", "amore", "morte", ecc. che fondano la veglia invariabile di colui che vive senza smentirsi in un area panica del senso del mondo, piuttosto che in quella di ogni negazione maniacale e spinosa, come è stata imposta e programmata nella vicenda contemporanea, che ha intuito ogni aldiqua come punto ammalato e grottesco della sopravvivenza. I pensieri di Marino Piazzolla non sconfiggono l'immagine dell'uomo ma la reificano senza peraltro lasciarla ottusa, ed opponendosi quindi ai modelli filosofici epocali, chiaramente incisi in molta parte della cultura laica in cerca di un destino non metafisico. Ma il poeta, senza affidarsi alle questioni teoriche, segue i declini della realtà dell'effimero, l'alito fragile della brevità logocentrica, l'orizzonte delle cose che si cancellano comunque alimentate da tensioni evoluzionistiche, e riattraversamenti di verità finto-efficaci e della singolarizzazione del Credo. Egli è solo con la sua ombra (non ameno stilita, nè nomade casuale), e senza scopo se non la purità della propria visione sacrificale, qualunque sia la circostanza o la dispersione di ogni preventiva regola per vivere meglio, e a distanza dall'altissimo Padre. "Non so se per la morte I O per la festa, un giorno, I Innanzi a Dio", comunque "scacciati dalla vita", dal "peso degli anni", dalla ripetizione dell'io che - tra l'altro - ci avverte della fine, qualunque sia il nostro potere o la polverosa umiltà.
3. Estasi (ed ombra) del sacrum
"Di tempo in tempo I Torno al mio paese. / Sembra dirmi una volta: / Coll'aria antica sulle case basse... I Qui tutto è fermo. I E vecchio il vento. I Secchi, tra i tufi, gli alberi I E le porte I E la pelle dei vivi. I E ricomincia I A chiamarmi l'infanzia perduta I Perché la sera sembra sempre quella. I A poco a poco I Perdo tutto il tempo I E non so più se sono I Fanciullo o vecchio, I Con tutti quei vivi di allora: I Che qui incontro da morti". (Di tempo in tempo). Un improvviso prevedibile, una sapienza cogente, rionale, una visione inseparabile del mondo (la Puglia) che faceva parte della sua totale storia sentimentale, viscerale, forse esasperante e diventata qui quieta, acre, quasi compunta e riemersa ad andatura funerea. Nell'esercizio della narrazione anche il fuoco ha un nome e questo s'indovina "paese", con una memoria mediativa, una meta à rebours da cui il poeta ripassa, per visitare antichi istanti e per rammemorare un'allusività liturgica, nel tempo alterato, ma evento del trasbordo finale. A Piazzolla non manca nulla per percepire l'effimero e tanto meno per continuare la vicenda della poesia, infatti ogni altro movimento o inseparabilità da essa si dispone nell'area di questa conducibilità visionaria, sia che diventi salmo di una "sposa demente", sia che riaffermi il piacere del testo esteso in altra "notte dal cratere", o "tra i merletti e i lumi di gemme con schegge al sommo dei paesi". L'elegia profonda ha qui il sacrum persistente e l'occhio che domina l'umanità di ogni perdita, l'innocenza, l'attenzione ad ogni lontananza, e qui l'infinita e puntuale estasi, l'ombra in cui si accampano fatalità, sospese trasparenze domestiche, il destino della terra che s'insinua in ogni illusione della comune vita. L'avventura clamorosa si azzera nell'adempimento di una riconoscibilità poetica mite, su pensieri mai monchi né confusi, ma quotidiani, alquanto labili, nell'esperienza di spettatore vigile e nel l'osmotica verità senza ornamento. lutto è leggibile come per sintesi: la vita, la morte, il silenzio, la memoria, l'infanzia, l'antico, l'ombra che passa e si stanca; l'autore dei versi è complice, lavora sullo stereotipo crepuscolaristico per meglio adagiare la propria pigrizia mediterranea e per rendere meno pesante l'accesso alla comunicazione privilegiata o una differente etica.
E' così che si rende più riconoscibile, che Piazzolla incomincia il suo reale tempo, la permanenza precaria della breve vita, il guadagnarsi la vita del cielo, con un racconto che riesuma accenti e fasi di moralità senza stili striati o capziosi, o polarizzazioni astratte e fine a se stesse, collegabili in ogni caso al mucchio delle macerie, alla tipologia della specie che qui hanno codici di meditativo adattamento. L'espressione fondamentale è quella confessio oris che diviene preghiera, e tutto è sacro per colui che si concede alla quotidianità, qualsiasi civiltà lo aggredisca e qualsiasi monito lo sorprenda. Intorno alla crisi della poesia religiosa ed all'avanzamento di un'attuale scrittura materialistica, c'è da tenere conto di questa dimensione umana esemplare, che non implica necessariamente la preghiera in assoluto, ma una praticabilità della riflessione che il poeta in causa aveva connotata già negli Anni Cinquanta, appartenendo alla tradizione e scrutando meglio la solitudine di ogni altra bizzarria, od altro arcano colore informale già coniugato in labile o minaccioso pathos.
4. Per fuochi, per tramonti
In questa sosta danzano in effetti le vacuità e gli assedi di tutto il resto della produzione poetica di Marino Piazzolla. Qui si misurano la sua musica, la semplicità proiettiva, la decifrabilità della "lunga notte", il "patire" che non ha più moda, né soluzione di conforto pubblico, ciò che riempie la vita e ciò che l'annulla e - pertanto - un ingenuo "nascondersi nel giorno che crolla"!
E gli stessi "figli del mondo" possono non trovare salvezza, malgrado i loro "mancati assassini", l'intera coesione con il viaggio convergente dell'angelo. Qui le "lune più belle" diventano indizi di prove e di riprove future per il poeta, che non ha accettato a cuore nudo quella specie di sediziosa anonimia imposta dal potere letterario di prima e di adesso, malgrado ciò che si pensa di fare nella postumità, con difesa e differenza sostanzialmente diverse, e forse su coraggiosa innocenza. Così, per fuochi ispirativi, come si sarebbe potuto dire prima d'adesso, poeta e necrosi tentano di condurre (per la giustizia critica?) una continuità, malgrado tutta la vita atroce e la non-vita assai vile! E questa ricerca di moventi interni al verso, in un'opera fra le primissime del poeta, non vuole essere una rivincita sulla medesima assenza della critica, che impara a nascondersi dove non c'è niente di utile, o dove la figura non fa gioco, ma un'interrogazione di come i temi ed i contenuti della sua poesia siano stati già di notevole avviamento fin dall'inizio della scrittura, elusa da lettori di professione e finalmente recepita da inalterato e minimo raggio e radice. Dunque, questi i "fuochi" che assalgono tutta la dorsale occulta della poesia meridionale in anni post-bellici (continuerei la ricerca su Bodini e Carrieri, sebbene i magmi di questi hanno fermenti barocchi e surreali d'altra furia e d'altra curiosità, e passaggi ridisegnati per l'inappagata astrazione e la mimesi sostanziale in quest'ultimo; Michele Pierri e Vittore Fiore, con un'intelligenza spinta meno sulla tragicità o sulla fantasmagoria fanciullesca). Piazzolla delibera la propria dignità lasciando ogni artificio o stimolo di canto naturalistico, e il suo lirismo ricomincia là dove la morte non è senz'altro una lusinga penitenziale, ma una certezza e - indubbiamente - una coatta prevalenza per l'essere disperso o viaggiatore che s'aggira insonne e pacato nell'itinerario di tutti i millenni, e segnato da un gioco panico, non anormale.
"La voce che dice addio I Non è più sola I Se un'altra, più amara, I Partendo, le risponde addio. I Allora il mondo si muta I E le sue sere, I Anche se spente, I Fanno ressa nel cuore. I E il tempo più segreto ci fa luce I Anche se lunga è la notte." (La voce che dice addio). E non "a causa della tristezza" ma della lucida e sobria esperienza che, immettendosi nell'oggettività, commuove il mondo nella dimensione in cui l'uomo trasmette il senso del divino e la sua orma non evidenzia una trama vorticosa o la morte per sempre. Su codesti tramonti esistenziali, e su tali incendi, le passioni civili diventano segno del limite, e la coscienza si riaccosta alla felicità centrale, qualunque sia l'annebbiarsi del campo comune, e tutto insieme il vorticoso stile della pioggia. Un'invocazione deistica che è anche una denuncia assiomatica, di fronte ad una poesia tenue che - nella metamorfosi - rapprende una fasci nazione filosofica, mai un'esaltazione medioevalistica, e modalità testuale tutt'altro che intrisa di lieve significanza nella pronuncia essenziale e a distanza da ogni artificiale o inespressivo vezzo, privo di sogno come di carte di credito.
Domenico Cara