PREMIO FONDAZIONE PIAZZOLLA
Massimo Ferretti
intervento di Massimo Raffaeli
Un antico luogo comune (falso e insieme
fondato, come tutti i luoghi comuni) asserisce che la neoavanguardia sa
dettare le poetiche ma non sa scrivere le poesie.
A seconda dei punti di vista, l'opera di un outsider quale Massimo
Ferretti costituisce l'eccezione o la smentita di quel vecchio
proverbio. Attivo fra il '56, quando esordisce su "Officina", ed il '65,
quando pubblica il secondo e ultimo romanzo (prima di entrare nella
clandestinità di un silenzio definitivo), egli rappresenta al meglio,
fuori quadro e fuori via, il decennio fervidissimo che porta prima il
nome dello sperimentalismo e poi quello dell'avanguardia.
Breve e bruciante la sua biografia: Ferretti nasce a Chiaravalle di
Ancona nel '35 ed è presto segnato da una grave forma di endocardite
reumatica; autodidatta, a vent'anni entra in contatto con Pier Paolo
Pasolini che lo fa pubblicare; dopo qualche tempo si distacca dal suo
giovane maestro, entra nel Gruppo 63 e fugge dalla provincia, tentando
inutilmente la fortuna a Roma: ci vivrà traducendo libri di
antropologia e psicologia e ci morirà, a soli trentanove anni, nel
novembre del '74.
La sua opera è racchiusa in tre libri che escono in meno di tre anni,
fra il '63 e il '65.
Il primo, Rodrigo (Garzanti 1963, poi Sestante 1993) porta nel titolo il
protagonista della Casa Usher di Poe ed è, nella forma del Bildungsroman
la storia di un suicida, anzi la programmatica liquidazione del suo
ambiente e di tutte quante le "idee ricevute"; il secondo, // gazzarra
(Feltrinelli 1965, poi Ponte alle Grazie 1992), è un libro che si
direbbe situazionista, o in anticipo sulle derive picaresche degli
indiani metropolitani, dove il narratore, o meglio l'antinarratore, fa
saltare ad ogni suo livello l'ultima istituzione sopravvissutagli, cioè
la lingua: ignorato dal pubblico, rimosso dalla critica, Il gazzarra
rimane tuttavia, quanto alla prosa, il frutto estremo e clandestinamente
luminoso della neoavanguardia italiana.
Ma è con Allergia (Garzanti 1963, Premio Viareggio "Opera Prima", poi
Marcos y Marcos 1994) che i tratti fisiognomici del poeta marchigiano
si fissano con indelebile originalità. Posto che il titolo della
raccolta costituisce l'anagramma del Libro novecentesco per antonomasia
(l'Allegria di Giuseppe Ungaretti), vi si squadernano tutte quante le
idiosincrasie dell'esserci di allora (l'Italia del boom economico, di
una frettolosa e per certi aspetti rovinosa modernizzazione) e vi si
assommano al completo toni e timbri dello sperimentalismo poetico (il
frammento lirico, il racconto in versi, l'epopea, la filastrocca)
alternando a piacere confessione e parodia, Grande Stile e non-senso,
ardore e tenerezza.
Come in questa poesia, malinconica e beat, che voglio leggere alla
maniera di un omaggio, e di un ringraziamento a tutti voi:
In trattoria
In questa trattoria di gente stanca Dove
mangiare significa reagire, dove la grazia di una dattilografa si
percepisce nel tono delicato d'un piatto di fagioli chiesto tiepido, dove un viaggiatore analfabeta emancipato per via dello stipendio spiega
a una turista anacoreta che il rialzo dei biglietti ferroviari
dipende tutto da questioni atlantiche- non ho ragione d'essere contento se il cameriere lieto della mancia,
leggendo la commedia del mio viso m'ha detto che ho una maschera da negro?
In questa trattoria di gente ottica Dove non so salvarmi dagli sguardi, condannato al sentimento della morte, serrato tra furore e timidezza- non ho ragione di essere felice
quando divoro una bistecca che fa sangue?
Il mio complesso è una tragedia greca: devo scrivere e vorrei ballare.
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Qui di seguito riportiamo l'articolo
apparso
sul quotidiano "il
manifesto" del 2 Luglio 2004
Da Massimo Ferretti con timido furore
di Massimo Raffaeli
Che
la Fondazione Piazzolla, all'interno di un premio pure selettivo quale
il «Feronia-Citta di Fiano», abbia scelto quest'anno di
ricordare l'opera di Massimo Ferretti e di per se una notizia.
O
meglio una notizia di quelle che fanno piacere e sorprendono anche e
soprattutto chi non e indulgente con i premi letterari in genere.
Rimosso dalle dinamiche di mercato (i suoi libri sono infatti
introvabili), dimenticato o quasi dalla critica, Ferretti è in
realta un esempio vistoso, proprio in quanto outsider, della
letteratura di ricerca, cosiddetta sperimentale, che ha segnato la
scena italiana fra gli anni Cinquanta e i Sessanta. Questo ragazzo a
vita (nato a Chiaravalle di Ancona nel '35 e morto a Roma per insulto
cardiaco nel novembre del 74) ha bruciato la sua parabola in meno di un
decennio, fra il '56 e il '65, e ha firmato appena tre libri: una
raccolta di poesie, Allergia (Garzanti 1963, poi Marcos y
Marcos 1994), un romanzo di formazione, Rodrigo (Garzanti
1963, poi Sestante 1993) e un romanzo stavolta deliberatamente
anti-romanzo (Il gazzarra, Feltrinelli 1965, poi Ponte alle
Grazie 1992) che e coinciso con l'abiura letteraria e un silenzio
davvero autopunitivo.
Vale ricordare che 1'ultimo decennio della vita Ferretti lo ha passato
chiuso nel suo appartamento fra le magnolie di Montesacro a tradurre
anonimi testi di psicologia e antropologia per la casa editrice
Astrolabio, con 1'eccezione di un romanzo della Brooke-Rose, Tra
(Feltrinelli, 1971), che in tutto doppiava la vicenda distruttiva e
suicidaria iscritta nelle pagine volatili del Gazzarra: ostiche
a chiunque e incommestibili persino agli amici della neoavanguardia.
Tutto per Massimo Ferretti comincia nei mesi dello sfollamento, quando
ha nove anni e gli viene riscontrata una grave forma di endocardite
reumatica: seguono letture voraci da autodidatta (Montale, Eliot,
Rimbaud, dalla cui precocità deduce uno stemma), lunghe assenze
da scuola, attriti con la famiglia borghese che vorrebbe fame un
rispettabile professionista. Ferretti adolescente scrive con estro
tellurico e nemmeno ventenne manda le sue prime plaquettes,
edite a Jesi e alla macchia, a Pier Paolo Pasolini che gliele pubblica
nel '56 su «Officina», la rivista bolognese redatta con
Leonetti e Roversi, facendone il caso piu esemplare di
sperimentalismo, in quanto pagato in prima persona e
biograficamente fondato, necessario. (In un epistolario di fuoco,
emotivamente complesso, che costituisce ora il nucleo delle Lettere
- Einaudi 1988 a cura di Nico Naldini - il grande poeta friulano ne
parla per ossimori e metafore incendiarie, avallandone la precoce
maturità, nonché la disperata vitalità che amava
ascrivere, elettivamente, a se stesso). La dentro c'è gia tutto
quanto il propellente di Allergia, un libro leggibile alla
stregua di un diario e nello stesso tempo di un diagramma
generazionale, con la vita da studente fuoricorso, 1'avventura e lo
squallore delle camere ammobiliate, gli amori sbandati e fuorivia; e
con la scoperta infine di Roma, dove Ferretti si trasferisce nel '61,
scrive in una lettera, a cercare «pane e libertà».
(Inutilmente: in effetti, sopravvive con sporadiche collaborazioni a
«Paese Sera» e «Il Giorno», viene respinto per
inidoneità fisica a un concorso Rai, tra i letterati vede solo
alcuni coetanei, fra cui Bernardo Bertolucci ed Enzo Siciliano, il
quale lo ricorderà nelle pagine di Campo de fiori,
1993).
Assortito con rigore ma anche con mano leggera e degna di un erede di
Palazzeschi, lo sperimentalismo di Allergia non ha nulla di
volontaristico. Estraneo sia al Grande Stile Secolare (niente è
più lontano da Ferretti della parola solenne, sublimata) sia
alla gelida chirurgia delle avanguardie storiche, il libro mantiene per
se un tono ora corrivo e canagliesco, ora invece serissimo e
«beat», alternando affondi autobiografici e spasmi emotivi,
distonie urticanti e drammatiche complicity, insomma gli ardori e
l'intatta tenerezza di un ventenne segnato dalla malattia ma non per
questo riconciliato con il proprio mondo. C'e un componimento, in
particolare, che ne traduce la poetica e ne rivela il tono sempre
a mezzo tra la confessione amara e la declamazione autoparodistica; si
intitola In trattoria: «In questa trattoria di gente
stanca/ dove mangiare significa reagire,/ dove la grazia d'una
dattilografa/ si percepisce nel tono delicato/ d'un piatto di fagioli
chiesto tiepido,/ dove un viaggiatore analfabeta/ emancipato per via
dello stipendio/ spiega a una turista anacoreta/ che il rialzo dei
biglietti ferroviari/ dipende tutto da questioni atlantiche/ non ho
ragione d'essere contento/ se il cameriere lieto della mancia, leggendo
la commedia del mio viso/ m'ha detto che ho una maschera da negro?// In
questa trattoria di gente ottica/ dove non so salvarmi dagli sguardi,/
condannato al sentimento della morte,/ serrato tra furore e timidezza/
non ho ragione d'essere felice/ quando divoro una bistecca che fa
sangue?// Il mio complesso è una tragedia antica:/ devo scrivere
e vorrei ballare.//»
E sul
serio serrato tra furore e timidezza (stando ai versi del suo
acerbo Dasein) Ferretti nell'anno terribile che fu per tutti il
1963 attua una serie di liquidazioni: scrive Rodrigo, il
medesimo nome di chi abitava la Casa Usher, storia di un suicida che fa
strage, prima di compiere il gesto, della personale biografia,
sfregiandone i luoghi, gli incontri, le occasioni; rompe con Pasolini e
aderisce al Gruppo 63, o meglio si lega d'amicizia ad alcuni
esponenti, fra cui Antonio Porta, Nanni Balestrini e Alfredo
Giuliani; infine, prende a scrivere, e ne legge capitoli al convegno
inaugurale di Palermo, Il gazzarra, un libro estremo, che non
gli verrà perdonato e servirà a murarlo in un silenzio
definitivo: sorta di collage pop, gioco di tessere musiche che alludono
alla presenza volatile di ex personaggi situazionisti e di futuri
indiani metropolitani, Il gazzarra riassume una fase di lungo
periodo della ricerca nelle scienze umane, che vede nella pura
plasticità linguistica la residua sensatezza, e l'ultimo
luogo, della letteratura. Urtato, ma presago, Pasolini ne parla come al
cospetto di una fatale deriva, definendo il libro un «oggetto
scritto senza destinatario».
Nell'operare di Ferretti, residua tuttavia il meglio delle scienze
umane dei suoi anni, specie la lezione di Lévi-Strauss, insieme
a quella di Piaget, quando dicono che nel pensiero dei primitivi la
parola non nasce per rispecchiare la realtà, bensì per
simularla e/o sostituirla. E M'hai levato la parola di bocca
esclama l'ultima voce del libro, nei modi di una clausola che prelude
alla parola anonima, fungibile, totalmente espropriata, che sarà
tipica di lì a pochi anni dei nuovi primitivi, gli scrittori
postmoderni, di cui Ferretti - senza saperlo né volerlo -
rappresenta la premonizione e, insieme, un possibile contravveleno.
Nel '65 non sembrò accorgersene alcuno, come pure nel '92 quando
Ponte alla Grazie, ristampando Il gazzarra, non si accorse di
avere omesso la composizione delle ultime tre pagine di quel
non-romanzo così incendiario, anzi così refrattario alle
parole d'ordine (presto tornate di senso comune) della trama esatta e
dei personaggi costruiti come si deve. Ma si trattava di obbedienze da
cui Massimo Ferretti si era volentieri, e da tempo, emancipato. Se
adesso il premio della Fondazione Piazzolla servisse solo alla
restituzione delle ultime tre pagine di quel testamento, avrebbe
assolto degnamente il proprio compito.
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