La notte dell'essere
L'esordio poetico di Yves
Bonnefoy con Anti-Platon
(1947) e Du mouvement et
de l'immobilité de Douve
(1953) avviene sotto il se-
gno di una curiosità metafisica lace-
rante e aggressiva, volta a violare il
segreto delle cose, a "distruggere il
giocattolo" per scoprire il congegno
nascosto che lo anima.
L'intenzione è enunciata già in Anti-Platon,
testo apparso nel 1947 sulla rivista "La Révolution la Nuit" (ma
ripreso e ricorretto nel 1962), e ancora tutto improntato al gioco
metamorfico e allucinatone) proprio della ricerca surrealista. La presa
di posi/ione antiplatonica è anche dichiara/ione programmatica:
alle "eterne idee" che si scoloriscono sulla bocca - e insieme alle
armoniche architetture delle forme - viene contrapposta una poetica di
oggetti snaturati, di riso e di sangue. L'artista è il
pigmalione che plasma con la cera e i colori un perfetto simulacro di
donna, lo obbliga a vivere, per poi armarsi di una torcia e abbandonare
quel corpo ai capricci della fiamma, e assistere quindi alla
deformazione e devastazione della carne traendo luce dal manifestarsi
di tanto orrore. Il gioco di effrazione dell'immagine simbolo della
bellezza classica - il corpo femminile - si spinge oltre le irriverenti
fantasie oniriche dadaiste e surrealiste (Max Ernst, Magritte) per
addentrarsi nel territorio incognito e orrifico della morte corporale,
là dove quasi mai la poesia aveva osato gettare lo sguardo.
In Anti-Platon compare il nucleo tematico - poche note discordi,
ossessive, enigmatiche, ma già cariche di notturna violenza
passionale - da cui si sviluppa Du mouvement et de
l'immobilité
de Douve. In quest'opera, destinata a rimanere tra i migliori libri
di
poesia del secolo, il surreali-smo d'origine è portato alle sue
ulti-me conseguenze e quindi superato: un furore amoroso e conoscitivo
trasforma infatti il gioco crudele, casuale e cerebrale di tanta
poesia e pittura francese d'avanguardia nella larga sinfonia funebre di
una discesa agli inferi sentita come passaggio obbligato, l'ultimo
ancora da compiere, nell'esplorazione della "notte dell essere", per
l'acquisto di una sapienza e salvezza eli cui solo la poesia può
farsi portatrice.
Douve (il nome, di forte pregnanza simbolica, indica una pozza d'acqua
chiusa e stagnante) è una donna amata e perduta nel labirinto
eiella morte. Una moderna Euridice o Beatrice (animata però
dall'ebbrezza della Menade) che il poeta vuole raggiungere e
glorificare, affrontando egli stesso un cammino pericoloso, irto di
insidie, nelle regioni infere.
Copertina della rivista Poesia dedicata a Yves Bonnefoy
Ma gli inferi che il poeta esplora per ritrovare la sua donna non sono
le desolate regioni del mito classico e cristiano, popolate di anime,
di dei. di demoni: sono invece gli interi del corpo affidato alla
terra, il corpo che si corrompe e si disfa, che subisce l'estrema
ingiuria della putredine, per divenire altro.
Come Gottfried Benn aveva in Morgue gettato l'occhio sul corpo umano
sezionato sui tavoli d'anatomia, così Bonnefoy osa oltrepassare
un confine interdetto e fissare ciò da cui tutti si ritraggono
inorriditi: il corpo divorato dai vermi e dagli insetti, la condizione
umana estrema nella quale "le mot visage n'a plus de sens". Ma
ciò che lo muove non è il cupo e cerebrale nichilismo
benniano, né un medievale o barocco contemptus mundi.
bensì un'inconciliabile pulsione erotica, che s'appunta sui
fasti del dissolvimento, sulle estasi carnali della putredine.
L'intuizione romantica e baudelairiana della sessualità come
morte, come dissolversi dell'io nella fusione dei corpi, è qui
potenziata dal raggiungimento di un'intimità gelida e bruciante,
che consente il possesso dell'amata attraverso la parola poetica
"nell'atto di conoscere e di nominare".
Il piano in cui il poeta colloca il suo rapporto con Douve è
quindi diversissimo da quello di un decadente erotismo mortuario, ma
anche da ogni forma di spiritualismo: Douve trionfa sulla morte
disciogliendo il suo corpo fra gli umori terrestri, divenendo erba,
albero, stagno, fuoco, carbone, e il poeta le è accanto, come
colui che sente la necessità di quella morte, di quella sfida
estrema, per raggiungere una comune apoteosi in una sfera dell'essere
destinata a rimanere incognita a entrambi e solo adombrata dalla parola
poetica. Un cammino nel gelo della terra, nell'acqua e nel fuoco: e vi
si alternano momenti di ebbrezza - c'è in Douve l'esultanza
della Menade posseduta dal dio - e momenti di disperata desolazione
nei quali Fenice, icona di rinascita, appare remoto e nebbioso miraggio.
Perché infine Bonnefoy non tace il dolore della morte: profondo
e umanissimo è il dolore che risuona in ogni nota di questa
esperienza umana oltre i limiti del terribile, "au sommet de la nuit de
l'etre", "al sommo della notte dell'essere". La complicità degli
amanti è ora un brusio di voci affrante o gloriose,
disperatamente soffocate dalla terra, riavvampanti nel fuoco, eppure a
dispetto di tutto non tacitabili.
L'alba, figlia delle lacrime
La straordinaria qualità poetica di questo libro nasce dunque
dall'innesto di un'esperienza ardente e dolorosa - di perdita e di
desiderio - nello spazio surrealista, popolato dalle figurazioni
oniriche, dai fantasmi e dai mostri della psiche. Innesto reso
possibile dal recupero di alcuni grandi modelli nei quali il movimento
della pulsione passionale si assesta nella geometria della forma
musicale e metrica: la Phèdre di Racine e la Jeune
Parque di Valéry, come ha notato Stefano Agosti, ma anche il
Baudelaire più maudit e noir. E quanto al
surrealismo, è il suo côté desiderante e
crudele che ha permesso a Bonnefoy di evocare il grande fantasma della
perdita - lacerazione che investe l'io e sconvolge le fibre più
profonde dell'essere e della materia - destinato ad accompagnarlo in
tutto il suo percorso poetico.
E d'altra parte la fuoruscita dagli inferi del surrealismo avviene
attraverso un processo di allegorizzazione, presente già in Douve,
che sublima i mostri dell'inconscio in architetture conoscitive e
infine in Art poétique. È appunto nel clima
purgatoriale, di deserto (e di inferno) oltrepassato, nella "terra
d'alba" di Hier régnant désert
(1958), che compaiono alcune decisive dichiarazioni di poetica. Come se
il poeta, mutata la furia lacerante in pena e nostalgia, si volgesse
all'esperienza appena trascorsa per elaborare un lutto ancora doloroso
distillandovi un significate) e un'acquisizione di consapevolezza.
"Le pont de fer" definisce la natura sombre e mortuaria di una
poesia che sfugge alla bellezza e ai colori eiella vita e mitre "un
long chagrin de rive morte", per protendersi - come un ponte di ferro,
appunto - verso un'altra riva, ancora più notturna.
In "La beautè" divampa una furia sacrilega verse) "colei che
è rovina dell'essere", la bellezza, il grande mito della poesia
di tutti i tempi, eli cui viene denunciata la natura bugiarda e
inadeguata. Echi baudelairiani risuonano nelle parole del poeta
giustiziere, che condanna la bellezza a farsi sangue, grido, notte, e
riconosce come unica pietà "ce coeur menant à
toute boue".
Foto di Yves Bonnefoy
"L'imperfection est la cime", infine, rende conto con toni
programmatici di quella che è stata l'esigenza di un'intera
epoca, condivisa e accettata dal poeta: "Il y avait qu'il fallait
détruire et détruire et détruire, / Il y avait que
le salut n'est qu'à ce prix". Al fuoco che deforma la statua di
cera si sostituisce qui il martello che fa a pezzi il viso che affiora
dal marmo e in esso viola ogni torma e ogni bellezza, per mirare al
vertice impervio dell'imperfezione". Come già in Anti-Platon,
il tema della morte e della scomposizione, il culto dell'imperfezione,
sono) messi in rapporto con la violenza visionaria e iconoclasta
operata sulle forme dalle recenti avanguardie e dallo stesso
surrealismo.
Il libro si chiude con l'immagine-
simbolo dell' "Oiseau des ruines", che
si separa dalla morte e nidifica nella
pietra grigia al so-
le: "Il a franchi
toute douleur, toute mémoire, / Il ne
sait plus ce qu'il
est demain dans
l'éternel".
Poesie incise sulla pietra
È nel segno della pietra che si colloca la
successiva raccolta, Pierre écrite (1965): materia di
roccia e di rovine, ma anche di selciati, ponti, edifici e lapidi, la
pietra evoca infecondità e durata, assenza di vita e
architetture, ombre e rifrazione di raggi, calore e gelo. È su
questa sostanza primigenia che Bonnefoy scrive le sue poesie.
Epitaffi o epigrafi, testi incisi su lastre di pietra per ricordare,
colloquiare con un'assenza, con un vuoto, ascoltarne le voci: come in
"Et in Arcadia ego" di Poussin, la parola poetica collude con la morte,
le strappa un effimero trionfo, un'illusoria durata che placa il
desiderio di eternità. Ma rovi, acque, ombre, porte nere che si
chiudono, voci affrante e bisbigliami avvertono che il non essere
è soverchiante: sulla morte vincitrice ("Il n'a étreint
que sa mort") si misura la precarietà ma anche lo splendore
vitale della parola.
Placato il demone urlante del dolore, l'ebbrezza e la voluttà
del cupio dissolvi, la Morte è in questo libro un
sottofondo di basso continuo su cui si modula il tema della dolcezza e
labilità dei legami, dell'inevitabilità del distacco,
dell'invecchiare.
Nella sezione "Un feu va devant nous" baluginano segnali di una
ritrovata quiete e gioia amorosa, di un'auspicata ancorché
impossibile "semplicità": luci e sogni che si intrecciano nel
buio di una stanza ("La chambre"), il rosso di una veste che disperde
"le charroi de l'antique douleur" ("L'arbre, la lampe"), la luce che si
accende nei grumi di metallo arrugginito ("Les che-mins"). E d'altra
parte si tratta di "passi senza domani", di "giorni senza futuro",
insidiati dalla precarietà e dal sentimento della fine: "Tout un
grand été nul avait séché nos rêves"
("Le myrte"), "Nous ne nous voyons plus dans la même
lumière" ("La lumière, changée").
Ma il grande tema della pietra su cui la parola s'incide non evoca solo
pietraie franose, evoca le epigrafi che fissano e trasmettono gli
eventi umani, gli epitaffi nei quali il morto rivolge le sue parole
ultime ai viventi, e soprattutto le più alte opere dell'ingegno
umano, della matematica che si fa forma e architettura.
In Dévotion, un testo del 1959, Bonnefoy aveva del resto
dichiarato un suo debite) di gratitudine e di "devozione" ai suoi
luoghi tutelari, luoghi di fecondazione e germinazione poetica: la
Cappella Brancacci (sul cui pavimento nell'omonima poesia di Douve
si rifletteva con il pensiero dell'immortalità la luce esitante
di un lume); il mausoleo di Galla Placidia, i cui muri danno stretta
misura alle ombre umane; i mattoni color sangue eli una porta murata
sulla facciata grigia della cattedrale di Valladolid; il mattone rosso
di Santa Malta di Agliè, nel Canavese, "che è
invecchiato esprimendo) la gioia barocca"; la vertiginosa architettura
borrominiana di Sant'Ivo alla Sapienza; le numinose pietre di Delfi. E
in genere "tutti i palazzi del mondo, per l'accoglienza che essi fanno
alla notte".
Il segno è la vita
La formazione logico-matematica eli Bonnefoy, il suo esprit de
géométrie, si fondono fin dalle prime opere con una
visionarietà notturna e oracolare - classicamente dionisiaca
-che lo spinge, secondo la lezione di Bachelard, alla violenza che
penetra nella profondità delle cose per ricercarvi gli elementi
primordiali, gli dèi imprigionati, il nucleo di pura energia,
il tutto e il niente. La sua poesia oscilla sul confine tra
l'aldilà oscuro e magmatico delle essenze innominabili - o se si
vuole della pura assenza - e la concreta fisicità del monde)
degli oggetti, dei gesti, della natura, delle parole. Come Hermes, il
poeta ha il dono di oltrepassare quella soglia, di andare e tornare,
portando nel dominio della morte gli oggetti della vita e nel dominio
della vita la tenebrosa sapienza degli inferi. Ma la soglia può
rivelarsi inganno e illusione: in Dans le leurre du seuil
(1975) la soglia è un luogo reale in cui il poeta spera di
vivere "una vita vera", un luogo di rovine che egli vorrebbe
ricostruire, di legami che desidera rinsaldare. Ma fin dal primo degli
otto poemetti che compongono il libro, "Le fleuve". si precisa
l'illusorietà della soglia, destinata non già a
introdurre in un luogo di certezze, ma a connettere l'évidence
con l'énigme, l'apparenza con il sogno, e a denunciare
quindi l'écart, lo scarto che separa e sancisce
l'irraggiungibilità, l'ignorance che divide gli esseri.
L'invito a guardare che il poeta rivolge alla sua compagna ("Regarde!
De tout tes yeux regarde!") non può che dare evidenza allo
scacco: niente ha più "cet à jamais de silencieuse /
Respiratiem nocturne qui mariait /
Dans l'antique sommeil / Les bêtes et les choses anuitées
/ A l'infini sous le manteau d'étoiles" e la mano che accarezza
il corpo amato non può che riconoscere la distanza - fisica e
conoscitiva - che la separa da esso, e ritrarsi quindi "dans le cri
désert".
Il fiume eli cui si parla è quello un tempo passato a guado da
"un dieu jeune", ma è anche un Acheronte melmoso dove un infero
nocchiero spinge, facendo leva con la pertica sul fondale di fanghiglia
"sans nom", una barca carica di terra nera. Fiume di acque
"brûlées d'énigme" presso cui Boris de Schloezer
morendo udiva una musica che aveva in sé il senso della morte
come "délivrance révélée" e insieme il bene
ultimo "de la terre perdue": l'Œuvre, appunto, trasfigurata, e
anch'essa sulla soglia fra vita e morte, giunta forse "a una cima di
scioglimenti, incontri, gioia".
Si fa più urgente in questo libro il bisogno di connettere
l'esperienza umana all'enigma della vita, di ricondurla agli elementi
essenziali (aria, acqua, fuoco, terra), di elarle significato
attraverso l'allegoria e una fitta rete di simboli e metafore: è
ancora l'eros l'esperienza-limite in cui i corpi riconoscono in se
stessi le essenze e nelle essenze l'energia primordiale del tutto.
Nell'eros gli amanti sono terra e fuoco, fumo, acqua, animali, pietre,
metalli: sono il tutto che coincide con il niente. E d'altra parte "le
signe est la vie", il segno è la vita, anche se pur esso, come
l'amore, ha la precarietà della frase di fumo che si distacca
dalla fiamma della torcia ed è leggibile solo per un istante,
prima di cancellarsi nel sovrano dominio dell'aria.
Dans le leurre du seuil rappresenta il punto più alto nel
processo di concettualizzazione e metaforizzazione del reale iniziato
da Bonnefoy con le prime opere. Convergono in esso con l'eredità
di Bachelard e Bataille le sollecitazioni più qualificanti
eiella cultura francese di quei decenni e eiella Nouvelle Critique:
Barthes e Blanchot, Foucault, Starobinski. Derrida.
L'assoluto a portata di mano
Lo spostarsi dell'attenzione poetica, "chiusa l'ala dell'impossibile",
dal fondo notturno e irraggiungibile dell'essere alla tramatura di
segni che di quel buio si alimenta per risplendere poi di luce
propria, si fa più evidente nelle ultime raccolte poetiche. Ce
qui fut sans lumière (1987), Début et fin de la
neige ( 1991 ), La vie errante (1993). In esse la
percezione della realtà fa tutt'uno con la metaforizzazione di
essa, e quindi con la riflessione sulla poesia, mentre acquistano
rilievo i testi poetici ispirati alle arti figurative, dettati anche
dall'intensa attività saggistica dell'autore in quella
direzione. In quest'ultima fase la contrattura lirica, un tempo
lancinante e infiammata, tende a sciogliersi in un più disteso
andamento ora narrativo ora riflessivo, che trova espressione
soprattutto nelle prose poetiche dei Récits en rêve
(1987) e de La vie errante, ma che si avverte anche nel respiro
dei versi.
Immutato, come ben si vede in Ce qui fut sans lumière,
è rimasto negli anni il desiderio del poeta di giungere
attraverso la poesia alla verità delle essenze, al sapore pure)
del frutto che nel suo istante di estasi si stacca dal ramo, alla
beatitudine edenica e irriflessa del giardino primigenio, al bagliore
di fuoco che precede la nascita
dei mondi, come pure forte è
in lui la speranza e l'attrazione per le gioie semplici della vita. Ma
egli deve dire addio (in "Le souvenir", poesia ricca fra l'altro di
echi leopardiani) all'ombra che lo ha misteriosamente accompagnato per
tanti anni, guida silenziosa e sorridente che del vivere sembrava
indicargli la verità terrestre e il gesto d'amore: ora l'ignoto
sovrasta con il suo urlo di uccello predace il buio che si infittisce
nella valle che separa il poeta dall' "ancella divina". Eppure "adieu"
non è la parola che egli sa dire e il flauto risuona ancora nel
fumo delle cose trasparenti.
Il continuo oscillare fra tensione amorosa e scacco esistenziale,
possesso e perdita, conoscenza e ignoto, sembra trovare un punto di
equilibrio, ancorché instabile, nel segno: può essere lo
sparviero ("L'épervier"), ieratica figura, icona
dell'unità del tempo, o la neve, grande tema unificante di una
sinfonia ultima, che si distende per l'intero arco di Début
et fin de la neige. Travestimento straniante delle apparenze, gelo
dell'essere, libro su cui il vento scrive parole "hors du monde",
teatro di epifanie e rivelazioni, la neve, come la morte corporale in Douve,
sembra dare l'illusione "que l'absolu est à portée du
monde". Come in Schneepart di Paul Celan, anche in Bonnefoy
avvertiamo che "gli abissi sono votati al bianco" e che il biancore
della neve comprende in sé gli atomi primordiali da cui tutto
lucrezianamente ha avuto origine ("De natura rerum"), la lapide
mortuaria che assorbe e cancella ogni colore e calore vitale, e il
risorgere dell'immagine resa sacra e intoccabile dal passaggio
attraverso il tutto e il nulla della morte ("Noli me tangere").
Ed è ancora la neve in "La seule rose" a disegnare e comporre le
architetture più pure, le forme perfette, e la perfezione, come
i grandi architetti del passato, Brunelleschi. Alberti, Sangallo, hanno
ben intuito, nasce dal desiderio ma ha come fine l'absence, l'assenza,
ciò che non ha nome né senso ed è quindi estremo
affrancamento dalla gravezza e dal dolore della materia.
Il poeta come traduttore
Per il poeta errante nella fitta selva dei simboli, dei segni e delle
recondite corrispondenze non esiste ormai apprezzabile differenza fra
la realtà naturale e quella immaginata, dipinta, espressa in
suoni e parole: in "Dedham, vu de Langham" egli può dunque
entrare in un dipinto di Constable e partecipare dell'incertezza e
dell'angoscia del pittore in lotta con l'inafferrabilità dei
segni, ma anche della sua esultanza, e della vittoria sul caso ("Tu hai
vinto, con un inizio di musica"), e della divina spremitura del vino, e
della gioia della luce. Ed è una stella speciale quella che nei
dipinti di Constable sa far emergere "Quelques figures simples,
quelques signes / Qui brillent au-delà des mots,
indéchiffrables Dans l'immobilité du souvenir".
Colmare la distanza fra i segni e le parole, travalicare "l'orizzonte
che chiude il linguaggio", osare il colore, la musica, l'architettura e
la matematica per anelare oltre le determinazioni spaziali e temporali,
forse per raggiungere l'Œvre assoluta vanamente sognata da
Mallarmé.
Ma in Bonnefoy l'Œuvre trova la sua antagonista nella Vita e
anche in se stessa, nel suo essere traduzione, materia, figura: in "De
vent et de fumée" il poeta si fa glossatore, esegeta, scoliasta.
traduttore del mito di Elena, ripreso nella sconvolgente versione
accettata da Euripide: non la bellissima donna, ma un simulacro di
essa ha seguito Paride a Troia provocando la lunga guerra. Per una vana
immagine sono morti tanti eroi ed è rovinata la prospera
città. Non è così, elice ora il poeta, non si
è trattato di un'immagine, né di una statua, né
della creatura vivente: Elena non fu che un fuoco, un fuoco fumoso di
rami umidi in un braciere che Paride ha portato con sé fin sulle
mura di Troia. Non il sogno che si fa opera per acquietare il
desiderio dell'artista, ma il sogno di un sogno. E dunque: lo
scintillio della nube che precede la figura formata, l' "alba del
senso" quando la pietra è ancora buia e il colore melma:
perché "Chaque fois qu'un poème / Une statue, même
une image peinte, / Se préfèrent figure, se
dégagent / Des àcoups d'étincellement de la
nuée, / Hélène se dissipe".
Dietro la figura realizzata, dunque, il fuoco irraggiungibile
dell'origine, il sogno del sogno cui la poesia da sempre aspira. E in
ogni realizzazione la consapevolezza moderna della distanza che
mortalmente separa la figure dalla donna viva desiderata da
Paride, perché infine l'artista altro non è che un traduttore
della lingua incerta della memoria e il suo testo un'ombra. Ne consegue
che la bellezza è "un regret" e l'Œuvre un cercare eli
afferrare con le mani l'acqua che fugge.
La cecità di Dio
Superare i confini che dividono immagine e parola per giungere al luogo
di verità, ossia al seme profondo da cui l'una e l'altra
germogliano, è uno degli obiettivi centrali della poesia di
Bonnefoy. E al tempo stesso obiettivo centrale del poeta è
sfuggire all'astrazione del linguaggio concettuale per raggiungere
l'immediatezza e pienezza del rapporto con il mondo. Ciò che
più colpisce in questa poesia di altissima temperatura
concettuale è proprio la mancanza di astrattezza: luoghi e
oggetti conservano in essa la vivezza dell'esperienza concreta (si
pensi ai paesaggi, alla ricchezza dei particolari che riguardano la
campagna, le stagioni, gli interni della casa).
Il fuoco che arde nel camino, il frutto maturo che si sfrange
nell'erba, l'abbeveratoio incrinato, la cisterna dell'acqua, l'imposta
che sbatte, il bicchiere su cui si posano le labbra, il lume, il ronzio
delle api. la nevicata nei boschi: tutto è sempre reale, eppure
insieme spostato nella dimensione degli enigmi, dei presentimenti,
delle verità cifrate. Così accanto alle immagini della
vita quotidiana, o del mondo "simple" degli animali e dei campi,
appaiono immagini di una vita "altra": il nocchiero infero sul fiume
melmoso, l'oscura, ventosa e luminosa presenza-assenza di Dio, le sue
epifanie nei rumori, nelle luci...
In uno dei testi più recenti di Bonnefoy (L'encore aveugle,
1997) troviamo appunto espresso in modo paradigmatico e conclusivo
questo rapporto di fusione-esclusione ; fra la trascendenza divina
e la vita i umana.
Non è il mondo a cercare Dio, ma l'inverso, dice Bonnefoy: un
Dio cieco "cerca", vuole, desidera il corpo. Ciò che riguarda i
corpi gli è negato, ed egli sa che tutto dell'imperfetta e
mortale vita degli esseri "è più eli lui" ("c'est plus
que lui"). "Dieu cherche, lui sans yeux / A voir enfin la
lumière": la cecità di Dio, che vuole farsi corpo per
provare ciò che i viventi provano (sperare, gioire, piangere,
stringere una mano... ) è anche la cecità della poesia,
la sua ubiquitaria forza vitale, il suo desiderio impossibile del
corpo, la sua disperazione, la sua grandezza.
Maria Clelia Cardona